Reykjavík, primi anni Cinquanta. In un piccolo appartamento seminterrato Sigvaldi e Helga toccano il cielo con un dito abbandonandosi alla loro giovane e travolgente passione e decidono di chiamare la figlia Ásta. Ásta come una grande eroina della letteratura nordica, Ásta perché ást in islandese vuol dire amore. Sedici anni dopo Ásta scopre il sentimento di cui porta il nome in una fattoria negli aspri Fiordi Occidentali dove trascorre l’estate. Lo impara a conoscere dalla storia tormentata tra un uomo e una donna uniti dalla solitudine e divisi dalla dura vita contadina; lo impara a capire dalla vecchia Kristín che ogni tanto, al mattino, si sveglia in un’altra epoca del suo passato e può così rimediare ai rimpianti che le ha lasciato la vita; lo vive sulla propria pelle insieme a Jósef, il ragazzo che le cambierà l’esistenza. Eppure sono tutte promesse di felicità non mantenute ad avvicendarsi in questa impetuosa storia famigliare, segnata per sempre dal giorno in cui Helga si rivela uno spirito troppo libero e assetato di emozioni per non ribellarsi alla soffocante routine domestica e abbandonare marito e figlie, lasciando Ásta con un’inquietudine, un’ansia di fuga, una paura di seguire fino in fondo i propri sogni. In un romanzo lirico, sensuale e corale, che si compone a puzzle seguendo i ricordi dei personaggi e le associazioni poetiche dei loro sentimenti, Stefánsson racconta l’urgenza e l’incapacità di amare, la ricerca di se stessi nell’eterna e insidiosa corsa alla felicità, e quel fiume di desideri e nostalgia che accompagna il destino di ognuno, sempre pronto a rompere gli argini e a scompaginare un’esistenza.
Recensione
Non sono mai molto veloce a scrivere recensioni. Recensioni poi, sarebbe forse più appropriato definire questi sproloqui come una raccolta estemporanea di pareri, impressioni ammassate nella mente durante lo scorrere delle pagine, che defluiscono poi con un ordine, più o meno logico, in questo personalissimo deposito di pensieri.
Le recensioni dei libri, dicevo, sono una cosa che ho bisogno di sentire con calma. Mi serve tempo per fare entrare il libro, completamente dentro di me, e per poi tirare fuori quello che, umilmente e senza alcun genere di pretesa, la mia testa percepisce di voler condividere.
In questo caso, però, butto giù tutto di getto. Tanto forte e graduale è stato il crescere della mia emozione, mentre scorrevo le pagine lunghe e strette di Storia di Ásta, nella splendida edizione di Iperborea.
Jón Kalman Stefánsson, autore conosciuto a molti, e sicuramente a tutti gli amanti della letteratura nordica contemporanea, è un ex insegnante e bibliotecario, poeta e autore di numerosi romanzi, tra cui I pesci non hanno gambee Grande come l’universo, due volumi di una saga familiare che ho preso tempo fa e che non ho ancora avuto modo di leggere ma che, dopo la splendida esperienza con l’ultima uscita dell’autore, verranno divorati in tempi brevi.
Stefànsson dicevo, è un poeta. E si vede. Niente di quello che si trova scritto in questo libro può far pensare il contrario. Non si tratta di un romanzo dai toni poetici, ma direi quasi di un flusso di poesia reso in prosa, dove ogni elemento narrato viene esposto in modo da far vibrare il pensiero, ma soprattutto il cuore di chi legge. La poesia è presente in ogni momento, non nei versi o nelle parole, ma nei concetti e nella visione del mondo che l’autore prova a darci mentre racconta questa storia.
Ma tutto cambia quando mi metto a scrivere. Cambia tutto! La scrittura libera qualcosa dentro di me. Ti suonerà strano, ma mentre scrivo divento più grande della persona che sono. Sì, mi trasformo in una corda sensibile che vibra tra ciò che è evidente e ciò che è nascosto. Esistono due mondi, almeno, caro fratello. Da una parte quello che appare agli occhi di tutti, quello di cui ti parlano le pagine dei giornali, quello che si dice ad alta voce – dall’altra c’è un universo segreto. C’è tutto quello che tralasciamo di dire, che nascondiamo, che ci rifiutiamo di ammettere. È lì che risiedono le nostre paure. Tutto quello che speriamo e che non otteniamo, o che non abbiamo la forza di conquistare. Tu lo chiami il mondo della poesia, e lo prendi come pura finzione. Benissimo. Ma che ti piaccia o no, questa maledetta poesia a volte è l’unica cosa capace di definire l’esistenza per com’è per davvero.
Sono queste le parole pronunciate dal fratello di Sigvaldi, padre di Ásta, poeta per passione, uomo incapace di spendere la propria vita lavorando, perché convinto di volere e soprattutto di potere passare l’esistenza solamente a scrivere, che per lui è lottare contro la morte.
Conosco poco l’autore di questo romanzo, ma quello che ho intuito durante la mia lettura, è che questo fratello poeta, così folle e fuori dal mondo da rinunciare alla normalità per dedicarsi alla scrittura, possa essere una sorta di richiamo all’autore stesso, che più volte trova il modo di far trasparire nel racconto la sua presenza, anche attraverso modi e pensieri messi in scena attraverso i personaggi.
Al di là dei miei discutibili tentativi di comprendere meglio la psicologia dell’autore, non posso negare di essere grata a Stefánsson per aver introdotto nella narrazione questa figura scapestrata e irresponsabile che è il fratello di Sigvaldi, un po’ poeta un po’ romanziere, un po’ tutti noi, con questo suo bisogno disperato di mettere su carta imprese grandi o piccole e di consentire alla sua anima di aprirsi al mondo, attraverso la parola scritta.
Spesso dicevi, e in modo piuttosto convincente, devo ammetterlo, che il modo migliore per essere se stessi è non fare niente – che l’essere umano scopre chi è quando riflette con calma.
Tornando al romanzo, non voglio perdermi in chiacchiere esageratamente lunghe; penso sia una storia tutta da leggere e soprattutto da sentire dentro, e preferisco pensare che ognuno di noi, leggendola, possa farne una sua personale interpretazione.
Tuttavia mi sento di condividere, in questo mio spazio appositamente ritagliato, solo un paio di riflessioni generali in merito agli aspetti che mi hanno più colpita durante la lettura.
La prima cosa che ho notato come elemento chiave che si protrae per tutta la narrazione è che Storia di Ásta è soprattutto una storia di sensi di colpa.
La colpa, il sentimento di avere sbagliato tutto e di stare male per questo, pervade tutto il romanzo ed è comune a tutti i personaggi; nessuno si salva da questa onta, ad accezione di Sesselja, la figlia di Ásta. Ognuno nel suo piccolo e nel suo modo ha qualcosa da rimproverarsi, qualche errore, grande o piccolo, responsabile di alcune situazioni e che, in qualche modo, ha segnato la vita e la sofferenza degli altri intorno a se.
Questa forte e complessa condizione, condivisa a livello corale, determina un senso di dolore e pesantezza, una negatività diffusa che si sposa perfettamente con gli elementi del disagio e della sporcizia, della perdita e della mancanza, del senso di vuoto e di annientamento che costantemente ritornano e che prevalgono sugli aspetti positivi, determinando una generale sensazione di squallore e disperazione.
Uno degli altri aspetti su cui ho avuto modo di riflettere è che Storia di Ásta è un romanzo dove niente va come deve. La sensazione perenne di “aver perso il treno”, di aver lasciato indietro un pezzo, di correre contro il tempo è un’altra costante che, pagina dopo pagina, accompagna il lettore e i personaggi. L’imprevisto, capace di far si che niente si incastri, è il protagonista indiscusso di questo testo, dove chi deve trovarsi si perde e dove gli incontri svaniscono per un soffio, determinando così conseguenze sempre più dolorose e drammatiche.
Nonostante questi elementi complessi e particolarmente tristi, io ho trovato che questo romanzo abbia un merito particolare, ossia quello di ricordare al lettore il valore del tempo che si ha a disposizione. Questa è una storia che fa pensare, capace di ricordarci mano a mano l’importanza di dire quello che pensiamo quando lo pensiamo, di sentirci liberi di amare chi davvero amiamo, di poterci ritenere degni di abbracciare la vita, con tutta la sua potenza, nel modo che vogliamo e che più ci rappresenta. All’apparenza possono sembrare dei concetti banali, ma io trovo che riuscire a trasporre in un testo scritto, all’interno di una narrazione ampia, relativa ad una storia inventata, un così grosso quantitativo di spunti relativi alla vita umana, sia una delle cose che rende un libro meritevole di essere letto e conosciuto.
Al di là di tutto il dolore che racconta, storia di Ásta è un inno alla vita, qui ed ora, e per questo ve lo consiglio con il cuore.
La citazione che ho amato
“Sì, probabilmente quelli furono i momenti più belli della sua vita, se non altro da quando la sua infanzia si era interrotta bruscamente un giorno d’autunno di quando aveva quindici anni. Alcuni ricordano esattamente il giorno, perfino l’ora, il minuto, l’istante in cui la loro infanzia si è conclusa, e raramente è di buon auspicio. I più fortunati sono quelli per cui l’infanzia sfuma così lentamente da non sparire mai davvero: dentro di loro rimane sempre il bambino che sono stati”.
TITOLO: Storia di Ásta
AUTORE: Jón Kalman Stefánsson
TRADUZIONE: Silvia Cosmini
CASA EDITRICE: Iperborea
ANNO: 2018
PAGINE: 480
PREZZO: 19,50 €