Chi mi conosce lo sa. I libri li tratto con i guanti. Mai un’orecchia, una piega. Guai a toccarli con le mani sporche. Non ci sono ditate né macchie. Grinze queste sconosciute. Però che palle. Leggere scomodi per non fare danni.
Questa è stata l’estate in cui si è rotto qualcosa. Non tutto, ma qualcosa, senza dubbio, si è spezzato.
Alla fine di un anno dove niente è andato come doveva, ho dato qualche strappo.
Il libro di cui vorrei parlare, è caduto di faccia, si è riempito di sabbia, di crema solare, si è squarciato al centro. E quando lo guardo, anziché infastidirmi, ripenso a tutte le emozioni che ho provato mentre lo leggevo. Mi piace pensare che sia l’inizio di un nuovo modo di leggere. La persona che sto diventando legge fuori dalle sue ossessioni, o almeno ci prova.
Le cose che non ho detto, il memoir ipnotico e struggente dell’autrice di Leggere Lolita a Teheran è uscito nel 2008, anno in cui Azar Nafisi, nata e vissuta in Iran fino alla fine degli anni ’90, è diventata cittadina americana.
In questo testo, di poco più di trecento pagine, si condensano quarant’anni di vita, esperienze personali e avvenimenti storici si intrecciano e si rincorrono, spesso rimanendo fortemente collegati tra loro, dando una visione articolata di ciò che quegli anni sono stati per l’Iran e per la sua gente.
E se pure questo sottofondo più ampio ha suscitato un interesse per le vicende drammatiche di un popolo di cui personalmente conosco ben poco, la narrazione di sé è talmente profonda e viscerale, da catalizzare tutta l’attenzione del lettore su di essa.
Per dirla con Walter Siti “quanta quantità di amore ad un livello diverso è necessaria, per raccontare le cose in un’opera d’arte?”.
Parlare di sé non è mai facile, scriverne presuppone una solida capacità di esporsi mista alla consapevolezza di avere qualcosa di davvero importante da raccontare. E non sempre questi due elementi sono presenti nei memoir.
L’atto narrativo di Azar Nafisi è un gesto di importante, che conserva al suo interno una potenza generativa e un’apertura verso il mondo che difficilmente si possono trovare negli scrittori che liberamente decidono di farsi oggetto della propria narrazione.
Una cosa è raccontarsi per sfogare i non detti, i propri rimorsi, quasi spinti da una rabbia incontrollabile e inconscia che non riesce a rendere davvero liberatorio l’atto di condivisione del proprio vissuto, altra è farlo per trovare pace, per dare giusto spazio e dignità al ricordo.
“Che cos’è il ricordo se non uno spettro nascosto in un angolo della mente, pronto a irrompere durante il giorno, o a disturbare il nostro sonno, con un atroce dolore, una gioia, qualcosa che non abbiamo detto o che abbiamo ignorato?”
Di questo libro mi ha stupito tutto.
La vita di Azar, gli ostacoli che ha dovuto affrontare, come donna e come cittadina iraniana, l’accanirsi degli eventi su di lei e sulla propria famiglia. E poi la sua dimensione affettiva. Le figure genitoriali che l’hanno messa al mondo e che lei racconta con tenerezza e lucidità, senza lasciarsi trasportare troppo da un giudizio che non potrebbe, per forza di cose, essere imparziale e soprattutto senza infangarne il ricordo, nonostante la quantità di situazioni dolorose connesse al suo rapporto con la madre ed il padre. Le sue scelte, come le sue reazioni, i suoi desideri rimasti lì, il suo mettersi da parte per soddisfare il volere degli altri, della madre, la grande “altra” della sua vita, e poi la tenacia e la capacità di non perdersi d’animo, una volta compreso di avere sbagliato, per poter tornare sui propri passi e decidere davvero a che cosa si vuole tendere e cosa sia importante raggiungere.
Leggere questo libro è stata un’occasione per incontrare e conoscere una donna straordinaria. Se pure l’epoca e la realtà nella quale è venuta al mondo ed è cresciuta siano lontanissime dal mondo in cui mi trovo io oggi, penso non sia stato un caso l’essermi ritrovata questo testo tra le mani.
Prima di iniziare a leggerlo mi interrogavo costantemente su come e in che modo fosse possibile trasporre i propri vissuti in una narrazione sufficientemente fedele alla realtà da essere di concreta sostanza per chi scrive, ma allo stesso tempo abbastanza travolgente e significativa anche per il lettore, per chi rimane un semplice spettatore di una storia di cui, nel racconto scritto, solo una minima percentuale può emergere.
“Un giorno mi confessò che non era il sesso che cercava nelle altre, ma una sensazione di calore, voleva essere approvato, accettato. Essere accettati! Quanto possa essere micidiale questo desiderio l’ho imparato dai miei genitori”
Confrontarmi con questo testo mi ha permesso di capire tante cose rispetto a questi interrogativi. Quand’è che fare i conti con noi stessi diventa un atto pubblico di utilità per tutti? Quando insieme al groviglio di sentimenti personali si riesce a far emergere qualcosa di universale. Ed è la guerra, l’oppressione, la violenza con cui i cittadini di Teheran hanno dovuto costantemente convivere, l’elemento che mi ha catturata e fatta sentire anche in dovere di terminare la lettura, di capire cosa fosse accaduto e di andare a fondo, sempre più, nelle vicende storiche che non conosco. Ma è soprattutto l’aspetto umano, la ricerca continua, l’interrogarsi su sè stessi e sui propri antenati ad avermi ricordato quanto ognuno di noi sia umano allo stesso modo, come tutti quanti siamo vittime e poi carnefici, a nostra volta, nella maggior parte dei casi senza un reale volere, e rendiamo l’esistenza di chi ci circonda un po’ diversa, a volte migliore, a volte peggiore, con i nostri interventi di cui non siamo nemmeno troppo consapevoli.
È in quella sofferenza legata alle azioni subite, alla paura di deludere, in quelle scelte decise senza ragione, appoggiandosi solo alle parole e al volere degli altri, ai vissuti che ci condizionano solo perché ci sono capitati, che io mi riconosco. E ritrovandomi ho paura ma non posso fare a meno di pensare quanta importanza abbia una narrazione come questa. Ed è poi nel volgere del destino, nella capacità di abbandonare, di lasciare andare, di non soffermarsi fino ad esplodere nel proprio dolore, di non rassegnarsi perché ormai è andata così, che ho riscoperto le infinite possibilità che abbiamo. Da tutto questo voglio lasciarmi ispirare.
“Scrivendo di sé viene naturale raccontare dei propri genitori, spinti dal bisogno di riempire il vuoto creato dalla loro morte. Parlarne non è risolutivo – almeno non per me – ma aiuta a capire. Se anche non ci dà la pace, può sembrare l’unico modo per avere un rapporto con loro e riportarli in vita, adesso che possiamo finalmente disegnare a modo nostro i confini della nostra storia”
Sono felice che Azar, alla fine, abbia scelto di dirle le cose che non ha detto. Per me sono state importanti.
- TITOLO: Le cose che non ho detto
- AUTORE: Azar Nafisi
- CASA EDITRICE: Adelphi Edizioni
- ANNO: 2008
- PAGINE: 332
- PREZZO: 12 €